Esiste un progressivo affinamento nella visione dello Śivaismo Kāśmīro con il quale viene superata, a livello gnoseologico, la posizione duale del Sāṃkhya e l’illusione dell’Advaita Vedānta a favore di un non-dualismo che preserva la verità sia della realtà sia dell’Assoluto.
I tre protagonisti sono rispettivamente Bhaṭṭa Khallaṭa, autore dello Spandakārikā, e allievo di Vasugupta, a sua volta autore degli Śiva Sūtra, Somānanda autore dello Śivadṛṣṭi e il suo discepolo Utpaladeva, autore del Īśvarapratyabhijñākārikā. Il punto in oggetto è confutare il dualismo spirito-materia del Sāṃkhya ed affermare il Monismo Assolutodello Śivaismo Kāśmīro, senza cadere nella totale illusorietà dell’Advaita Vedānta di Badharayana, Gauḍapāda e Śaṅkara.
Bhaṭṭa Khallaṭa parte da una dichiarazione di possesso:
“tutto in questo universo sono le sue potenze (śakti) e Śiva ne è il possessore” .
Spandakārikā
È lui a mettere il primo mattone di tale sublime speculazione:
Śiva è l’agente e Śakti è la sua azione.
Bhaṭṭa Khallaṭa
Nella perenne espansione di sè (spanda), Śiva si presenta come azione di continua creazione del mondo oggettivo e questo mondo creato rimanda e riconduce sempre a Śiva stesso, in quanto è Śiva in forma di potenza (śakti), tutto ciò in pieno contrasto sia con il Sāṃkhya, in cui i due principi di spirito e materia sono distinti, sia dell’Advaita Vedānta, in cui l’Assoluto è immoto (niśkriyā), ovvero non crea affatto.
A lui Somānanda aggiunge una geniale prospettiva, ossia quella della Coscienza a monte del processo conoscitivo. Śiva, pur essendo coscienza pura, rende tutte le cose manifeste e questo con l’assunto che l’oggetto conosciuto è la coscienza che lo conosce. Asserisce Somānanda che un oggetto è conoscibile proprio perché fatto della stessa “materia” della coscienza che lo conosce; per questo motivo gli oggetti concreti sono fatti di coscienza e, nonostante ciò, sono reali.
Aggiunge un altro meraviglioso tassello al processo Utpaladeva, discepolo di Somānanda, nel meccanismo gnoseologico concorrono due momenti che rendono vera sia la realtà oggettiva che la coscienza a monte: prakāśa (luce dell’intelligenza) e vimarśa (percezione autoriflessa).
Con prakāśa, Utpaladeva intende la capacità della coscienza di illuminare gli oggetti dei sensi, di comprendere le varie forme manifestative (ābhāsa, dalla radice bhā-brillare). La coscienza, quando comprende, illumina i fenomeni che appaiono come luce della sua conoscenza e facendo questo si riflette (vimarśa) in essi, ovvero si riscopre o riconosce (pratyabhijña) come coscienza nelle apparenze manifestative (ābhāsa).
Nel conoscere un qualcosa conosco e comprendo me stesso.
Utpaladeva
La genialità di Utpaladeva non si esaurisce quì, perché se la sua intuizione si fermasse così questa sarebbe una psicologia ante litteram o un mero idealismo (tutto è mente). Utpaladeva compie il grande passo gnoseologico, vimarśa non è solo un atto di autocoscienza riflessa, perché altrimenti gli oggetti sarebbero illusori, in quanto solo specchi per le coscienze che ci si riflettono.
Vimarśa è la garanzia che l’universo è oggettivo (śakti), proprio perché in esso la coscienza (śiva), che è intelligente (prakāśa), ci si può riflettere (vimarśa). Senza uno specchio non esiste la possibilità concreta di riflettersi (svabhittau). Utpaladeva fa dire perciò a Śiva nello Śivaismo Kāśmīro, superando sia il dualismo del Sāṃkhya che il miraggio (mithyā) di Śaṅkara:
“io Sono e sono tutto questo universo”.
Īśvarapratyabhijñākārikā