Per uno statuto filosofico universale dell’Aikido
Oggi un po’ tutti sanno dell’esistenza dell’Aikido, di questa moderna disciplina marziale, e la sua diffusione rende ampia testimonianza del fascino che essa provoca. La sua estetica, la sua grazia, e l’allusione ad una misteriosa efficacia, ne rendono appetibile la pratica anche in epoche di crisi come questa, e di limitate risorse da dedicare a bisogni non materialmente primari. Alcuni percepiscono tra le righe, o più o meno consciamente, che la stessa si può porgere come alternativa e/o complementare, ad altre e pur consolidate strade di pratica psicofisica, o più prettamente spirituale come lo Yoga, giusto per fare un esempio.
Altri ripongono speranze ancora sulla deriva della New Age, nonostante quasi nessuno parli più di Era dell’Acquario…
I rapporti tra la marzialità e lo spirito sono ampiamente consolidati nell’Aikido, come sottolinea Chogyam Trungpa, quando arriva a sostenere in un suo noto saggio sull’argomento (Shambala. La via sacra del guerriero. Ubaldini) che il mestiere di prete al bramino lo insegnò il marzialista. Le conferme che ci vengono sul nesso marzialità/spirito dal Giappone, dalla Cina e dallo Yoga induista riguardo alla casta degli kshatriya, sono di portata immane.
In che modo e con quali forme tutto ciò possa avvenire è argomento di non poco conto; il rischio è di imboccare una tangente, che pur lasciandoci presagire il contenuto, rimane impedita di pervenire al centro della cosa. Come lo stesso Trungpa ammoniva in un altro saggio, l’equivoco si annida nel “materialismo spirituale”, ovvero come le nostre categorie positivistico/scientifiche -oltre che le nostre più consolidate, inconsce tendenze emotive-, nel mentre si interrogano e si porgono alla contemplazione della realtà immateriale, ne sono decisamente ostacolate dalla loro stessa ontologia.
Nel campo della scienza è la meccanica quantistica, con i suoi paradossi e il suo linguaggio disorientante, ad aprire la mente verso un modo di procedere che partendo da certe premesse… le perda per strada nello scopo di rapportarsi ad un quid antitetico.
Il pensiero filosofico puro chiama aporie situazioni di tal fatta, e rispetto all’uso del vocabolo, non possiamo non constatare una pregiudiziale di natura emotiva, interna a noi stessi: la parola evoca cose da evitare in quanto inghippi, nodi insolubili o quantomeno da tagliare, alla maniera di Alessandro magno.
“Chi non risolve l’enigma è ingannato: il sapiente è colui che non si lascia ingannare. L’azione dell’enigma è di ingannare e di uccidere mediante l’inganno: su ciò ci ammaestra Eraclito. In fondo il sapiente è un guerriero che sa difendersi.”
Giorgio Colli, La sapienza greca
E Platone era anche un pugile…
La storia però non ci ha fornito risposta se con quel gesto il macedone abbia risolto o meno il problema; anzi la mancata risposta, è indice proprio della permanenza dello stesso. Il nemico è l’inganno che sfrutta la nostra collusione, il nostro fattore interno, l’unico su cui potremmo fare qualcosa.
Qualche cultore dell’induismo che si sia avvicinato alle moderne teorie della fisica delle microparticelle, ha constatato con soddisfazione che quantomeno sul piano dei principi -e senza disporre del CERN di Ginevra, oltre che delle preziose riflessioni di un certo Einstein-, in particolare senza essere previamente passati per la bomba atomica, quei contenuti erano già riconosciuti prima di Cristo e persino di Socrate e Platone (V. in particolare Orfismo e Misteri Eleusini, come ben allude Giorgio Colli).
C’era soprattutto un modo di rapportarli all’umano, tutt’altro che sprovvisto di razionalità (visto che le origini della matematica, ancor prima degli arabi, vanno all’induismo ricondotte), ma capace di farli digerire, anche se ad un mondo ancora ristretto. La ragione esisteva senza essere diventata la Dea Ragione, madre del positivismo scientifico, e dell’alternatività assoluta tra razionale e irrazionale.
Al contrario, proprio quell’espressione enfatica nel bel mezzo dell’Illuminismo –rebound inconscio di un arrocco unilaterale nella ragione-, era eloquente di un bisogno di coniunctio tra gli opposti, di realizzare un punto di vista capace di porre, senza op-porre.
La logica disgiuntiva soggetto-oggetto, quella posta a base di un generico quanto esclusivizzante principio di razionalità, si trova a venir ridimensionata proprio dalla meccanica quantistica e (tra gli altri) dal concetto di entanglement, ovvero e al contrario, di quella contaminazione soggetto e oggetto uniti in un nesso di dipendenza reciproca, come pure il principio di indeterminazione di Heisenberg aveva cominciato a declinare.
Come mai solo dal secolo scorso, bisognerebbe chiedersi, quando nel cuore dell’occidente e nel momento della dominanza del pensiero cartesiano, tra il 600 e il 700, il tre volte caro -perché conterraneo, perché giurista, perché filosofo- Giambattista Vico aveva messo a punto un nuovo metodo epistemologico, oggi denominato sulla scia di Dilthey della “comprensione” …un conoscere non analizzabile se non nei suoi propri termini…il tipo di sapere che chi partecipa direttamente ad un’attività afferma di possedere, di contro ai meri osservatori…(James Hillman, commentando I. Berlin, Il concetto vichiano di conoscenza, Adelphi)
Il valore della congiunzione e della cor-rispondenza degli opposti, comincia solo oggi a fuoriuscire dagli ambiti alchimistici, iniziatici, religiosi, meramente filosofici o psicologici, per trovare ricetto in applicazioni assolutamente concrete pure in ambiti tecnologici, senza con questo smettere di disorientare il conscio collettivo, lo stile di (in)-coscienza generalmente diffuso.
Questa possibilità anche applicativa di congiunzione degli opposti, non si limita a porsi come opzione accademica, ma si propone come opportunità rispetto a bisogni, costellati appunto attraverso aporie, contraddizioni insanabili, crisi di modelli e valori, stallo e conflitto nei rapporti umani…
Già il relegare queste considerazioni ad un piano di scrittura, meno olisticamente integrato di un parlare qui ed ora che tenga conto di un uditorio, ancor meno di una capacità di espressione che includa il corpo, a sua volta inferiore ad una presenza non solo corporea e mentale, ma anche e nello stesso tempo spirituale, creativa ed artistica, pur comincia a darci conto dell’importanza di quella disciplina, l’Aikido, che il titolo dell’articolo pone in relazione con la coscienza dionisiaca. E nel contempo dei limiti di tutti i contesti solo mentalistici o solo verbali, come libri, articoli, tavole rotonde, video, e luoghi vari anche istituzionali, dove ci si riduce al solo leggere, parlare, o, nel migliore dei casi, a guardare ed ascoltare.
“La lacerazione tra saggezza e azione pratica continua ancora a pregiudicare tutta la metafisica di ispirazione aristotelica, mentre la connotazione originaria di sophia indica che pensiero e azione sono presenti insieme in ciascun gesto della mano estetica”.
Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Piccola bibl. Adelphi
La contaminazione e l’implicazione di più livelli contemporaneamente, si palesa come momento necessario di coscienza e azione, per il tasso di complicazione tecnologica, sociale e istituzionale della nostra vita. Secondo l’assunto di Umberto Galimberti (Psiche e techné, Feltrinelli) è la tecnologia, che da oggetto è divenuta soggetto nei riguardi dell’uomo, reificato a sua volta dal suo stesso prodotto.
Senza una coscienza della complessività del fenomeno sociale, senza una capacità di seguire e metabolizzare il processo di coincidenza degli opposti, ben oltre il mero livello teoretico di riflessione, si va incontro ad una follia conflittuale da incomunicabilità collettiva (nella politica interna e altresì nelle relazioni internazionali), non più contenibile da una mera deterrenza a base di terrore nucleare, come in qualche modo di fatto è avvenuto. La recente diffusione pandemica, con tutte le verità da scoprire su di essa, grazie al terrore che ha ispirato, ci mostra al contrario che invece di una congiunzione di opposti, possiamo ricadere in un regressivo assorbimento da parte di una sola delle posizioni.
Una coscienza che includa la corporeità del gesto, il suo quantum emotivoenergetico (senza trattini!), la capacità di riflessione profonda e di prospettica spirituale, appare più compatibile con il livello complesso della società attuale e dei suoi processi decisionali. Questo, beninteso, al fine di nutrire una speranza, in quanto il livello di gestione planetaria di questo stato di cose, somiglia sempre più alla “Cina” dei mandarini (leggi Direttorio della finanza), i quali a differenza del popolo erano i soli a detenere il potere, derivante dalla “capacità di leggere il linguaggio” scritto.
Se ci arrendiamo, tanto vale ridurci alla mera teoria del caos! Accada ciò che ha da accadere…
Ma se ancora aneliamo al contrario, per realizzare quel livello di coscienza, occorre una prassi che sia come un’arte (da Nietzsche e da Onisaburo Deguchi ritenuta la madre della religiosità): riflessione, gesto e creazione, insieme! E la forza sia interiore che fisica, per metterla in atto.
L’Arte della Pace, come poeticamente qualcuno ha chiamato l’Aikido, ha da subito la caratteristica paradossale di collocare nel Budo, nella marzialità, il suo luogo esistenziale. Già la semiotica della parola budo, il suo kanji, implica l’apparente contraddizione di una capacità di “fermare le armi”.
“Si vis pacem para bellum”: è questo il livello dell’Aikido, oppure Morihei Ueshiba è stato capace di andare oltre?
Il parallelo con la coscienza dionisiaca si propone proprio di accertarlo.
A tal punto e prima di procedere oltre, occorre una precisazione: quando parlo dell’Aikido, mi riferisco essenzialmente a quello di Morihei Ueshiba, e coerentemente con il discorso fatto in premessa, non mi posso accontentare di una rassomiglianza formale (di mere forme), ma debbo necessariamente riconoscerlo, attraverso il livello complesso di coscienza che esibisce e mette in atto. Attraverso un’osmosi mi tocca realizzare quel livello di coscienza, lo sfondo dei kuden di Osensei
Così sembra di sentire Vico, quando rapportandosi al nemico al fine di salvare sé e l’altro -e non per una sottigliezza strategica al fine di distruggerlo-, Ueshiba invitava a mettersi al suo posto, sia materialmente con uno spostamento, sia attraverso la congiunzione empatica del movimento e con le intenzioni. Una “comprensione”, a tutti gli effetti, nel senso perorato da Dilthey, e da Edith Stein.
I successori del Fondatore dell’Aikido, nella maggior parte e con diverse sensibilità, lo hanno seguito su un livello di avvicinamento ed imitazione strumentale, anche utilitaristica, quasi sempre senza riprodurre il pathos necessario, il calore di cottura indispensabile per qualsiasi vera realizzazione spirituale, e a quel livello coscienziale in particolare.
E’, illuministicamente, aver seguito solo la strada di Apollo, l’essoterico, la mera parola, il manifesto, il duale soggetto-oggetto.
Riconoscerlo nell’oggetto, riconoscendolo nel soggetto, e attraverso il percorso riconoscermi nell’armonia dei contrari internecessari (la prassi dell’Aikido): ecco nella cripticità della proposizione, un abbozzo della coscienza dionisiaca e del suo metaforico, con la quale voglio provare ad interpretare meglio il fenomeno, alla luce della complementarietà.
La logica disgiuntiva si avvale dell’opposizionismo: le coppie luce-buio, maschio-femmina, bello-brutto, amico-nemico, corpo-spirito, tesi-antitesi, NASCITA-MORTE, e l’infinito numero di ulteriori esempi possibili, sono considerati il motore dialettico della realtà. Lo stesso concetto hegeliano di sintesi non vale, in uno stile di coscienza opposizionistico, se non come proposizione di una nuova tesi.
Questo tipo di frammentazione, in cui storicamente la sintesi altri non era se non il momentaneo vincitore, non è più accettabile in una situazione come quella descritta sopra da Galimberti, in cui il soggetto virtuale Tecnologia, ha ridotto ad oggetto l’uomo materiale. Dono degli dei per esaltare le facoltà dell’uomo, la Technè sta esibendo il suo lato avviluppante ed antiumanistico, a livelli inusitati di potenziale distruzione planetaria, come è palese dal dopoguerra in poi, in un crescendo di modalità anche indirettamente autodistruttive (inquinamento, dittatura telematico/sanitaria…). L’unilateralità accumulativa/ossessiva dei processi produttivi da liberismo sfrenato, come un cancro che prolifera un sol tipo di cellule, fa da catalizzatore al processo di cambiamento climatico, per quanto in qualche misura naturale possa esso anche venire riconosciuto.
Una logica congiuntiva, invece, che non decifri la realtà in maniera unilaterale, nell’alternativa assoluta di vincitore e vinto, di bene e male (fittizi nella loro intercambiabilità), ma al contrario nel bisogno di riconoscermi in ciò che mi si op-pone, sia sul piano materiale che su quello impalpabile, è la premessa di un processo di collegamento e coesistenza di tutte le cose tra di loro, in nome di quel soggetto unico senza oggetto, transpersonale e collettivo: la Vita, o il Vivente che dir si voglia.
Un tipo di coscienza del genere esisteva già nel mediterraneo (ma non era difficile nel percorso geografico che ha prodotto le lingue indoeuropee, riconoscerne gli antecedenti orientali): Dioniso e prima di lui Shiva, prendendo atto sia pure in maniera semplificata in senso diacronico delle contaminazioni, delle rotte di incrocio culturale verso est (Tibet, Cina, Giappone), e verso ovest (Persia, Egitto, Grecia).
Le letteratura su Dioniso è pressoché sterminata e, ai fini più circoscritti del presente contesto, focalizzerò una lettura dalla psicologia del profondo, servendomi in particolare delle ipotesi di James Hillman e del suo saggio sulla femminilità psicologica, quello conclusivo del volume Il mito dell’analisi, Adelphi.
“Il rapporto spirito-materia e le difficoltà di una loro armonia riflettono, dal punto di vista psicologico, precedenti difficoltà nell’armonia di quegli opposti che chiamiamo mente e corpo o, ad un livello ancora più profondo, maschile e femminile.”
Hillman, op.cit. Pag.228.
Guarda caso la mia professione, che consiste proprio nell’occuparmi delle vicissitudini giudiziarie di conflitti, me ne fornisce verifica attraverso il perdurante clamore di esasperanti e ripetuti fatti di cronaca, in uno alle riflessioni a livello politico sull’introduzione di una figura particolare di delitto detta femminicidio.
Su tale ultimo argomento, nell’eccesso di distinguo verbale e sostanzialmente solo formale, in una legislazione inflazionata rispetto ad una giustizia impotente, il rischio è semmai di acuire contrapposizioni di genere, nel collettivo.
“Va benissimo parlare delle nuove teorie della materia, della relatività di materia e spirito, della fine del materialismo, di sincronicità e di unus mundus, e della possibilità di una nuova scienza universale in cui materia e spirito perdano il loro carattere di polarità ostile; ma queste sono tutte proiezioni dell’intelletto e tali resteranno fino a che non si verificherà un corrispondente mutamento di atteggiamento verso la parte materiale dell’uomo stesso, che, come Jung dice, nella nostra tradizione è stata sempre associata al femminile.”
Hillman op.cit. pag. 229.
Una prassi, attraverso la quale far accadere questo processo di trasformazione dell’atteggiamento nell’uomo, è sicuramente l’Aikido. Un’arte che si proponga l’armonizzazione in maniera concretamente corporea, materiale prima ancora che etica, con l’opposto, col nemico che viene per ucciderti, è già una risposta di peso. L’atteggiamento interiore dell’aikidoista ( praticante di Aikido), deve necessariamente essere quello di divenire tutt’uno con il suo opponente, di “fondersi” con esso.
Questa fusione in modo del tutto analogo a quella nucleare ricercata da Rubbia and company, comporta l’attingimento di un livello psicoenergetico superiore, con la creazione di “un’altra realtà”, di cui invece si allude con la vaghezza di un inattingibile, nel mondo purtroppo corrente dell’Aikido. E’ invece proprio il Fondatore Ueshiba Morihei, in un suo kuden a parlare come un epigono della teoria della relatività, di “tecniche” indifferenti al problema della velocità, di modi al di là del tempo e dello spazio.
All’aikidoista (praticante di Aikido), illuminato dall’esperienza correlata e non conflittuale del nuovo stile di coscienza, compete saperlo, nel senso etimologico latino di sapere,ovvero esserne impregnato; con tutta la determinazione occorrente grazie al modello marziale.
Se rimanesse solo una prassi senza risolversi nel coerente mutamento di coscienza, l’Aikido, quello comunemente diffuso e malinteso, finirebbe per costituire uno stilema anche affascinante, ma atteso al varco della riprova estrema nel qui ed ora emotivo, guarda caso enclave del femminile, dalla prospettiva solo maschile-apollinea. Ma costituirebbe in ogni caso sul piano sociale, trattandosi di una disciplina relazionale, che implica necessariamente l’altro, almeno un livello superiore alla mera esortazione verbale, o allo spesso tardivo tentativo di riarmonizzazione attraverso la sanzione giudiziaria, sulla cui natura (concetto di pena, da cui scaturisce il diritto penale) neanche gli addetti ai lavori sanno rispondere. Sarebbe comunque un -timido- passo avanti.
La coscienza dionisiaca, anche nella sistemazione che ne fa la filosofia (Giorgio Colli, Apollineo e dionisiaco, Piccola biblioteca Adelphi), risulta posta in alternativa a quella apollinea in quanto quest’ultima
“...come il suo eponimo appartiene alla gioventù, uccide a distanza (la sua distanza uccide) e, mantenendo il taglio scientifico dell’oggettività, non si mescola né si sposa mai col suo materiale.”
(Hillman op.cit. Pag. 261).
Quanto profetiche queste parole nell’epoca oggi del distanziamento sociale, del timore di toccarsi, di contagiarsi… Il salto quantico nella coscienza potrà avvenire solo quando l’espressione di Ueshiba (ware wa uchu nari) io sono l’Universo, testimoniando un’Unica Armonia senza separazioni, sarà compresa e metabolizzata fino in fondo.
La questione però non è assumere un sistema (Dionisiaco), per contrapporlo ad un altro (Apollineo), allo stesso modo in cui una religione monoteistica ne vuole soppiantare un’altra, o la visione matriarcale quella patriarcale e viceversa. Infatti non è un caso che tale mutamento non concerne gli uomini in quanto maschi, perché l’apollineo come archetipo
“…è indipendente dal genere della persona tramite cui agisce, cosicché l’integrazione del femminile è una questione che non riguarda solo gli uomini ma anche le donne.”
Hillmann op.cit. pag. 262.
Così come il concetto di Multiverso sembra ipotesi più appropriata di quella di Universo, una policentricità della coscienza non più presuntamente unitaria, in uno alla visione neopoliteista della psicologia archetipica, si propone in maniera più necessariamente eclettica di fronte ai problemi che vorrebbe risolvere.
Lo stile di coscienza apollinea, con la sua fantasia di superiorità nei confronti del femminile, corrisponde a quella monoteista del Dio ebraico, contraddetta solo dal dogma dell’Assunzione a metà del secolo scorso, senza che questo abbia prodotto significativi cambiamenti di struttura, nello sbilanciamento a favore del maschile tutt’ora permanente nella Chiesa di Roma.
Ma non è più tempo di affidarsi alla presunta depurata oggettività e chiarezza scientifica della coscienza maschile apollinea, quando tutto ci chiede di “andare incontro” alle strutture psichiche -quasi sempre inconsce- che dominano soggettivamente la nostra apprensione dei dati, rendendola malfida, come ad un nemico da riconoscere e nel migliore dei casi da ammansire.
“Gli uomini onorano ciò che giace nella sfera della loro conoscenza, ma non si rendono conto di quanto dipendano da ciò che giace oltre” diceva non a caso Chuang tzu, che oltre a risultare così antesignano di Freud, era anche un provetto spadaccino e il più esoterico dei taoisti.
Integrare l’aspetto oscuro nell’aikido, non distruggere o causare distruzione perché esso aspetto oscuro è tale, in quanto è stato op-posto, e come tale essendo travisato nelle vesti di minaccia, non è riconosciuto come contro-parte inevitabile, proprio del e dall’unilaterale stile di coscienza. E’ il problema del marziale come accumulo di potenziale distruttivo, anche raffinato, nei confronti dell’altro, demonizzato a priori. Uno strumento che prende la mano, satura la capacità di coscienza, non lasciando altro spazio di potenziale creatività, per rapporti, che non siano appropriazione/sopraffazione.
Come in quella statua di Bernini la bella Dafne, la desiderata Dafne, sceglie di sottrarsi, di farsi pianta, natura indeterminata, in quanto sente di non aver scampo dall’ottica reificante di Apollo che vuole ghermirla, e non trasformarla e lasciarsi trasformare dall’incontro con lei.
“Nella scienza la coscienza prende cognizione della materia imponendo un ‘taglio’, una linea di confine tra se stessa e il materiale. Nella scienza la femminilità della materia non può mai essere realmente conosciuta, e in questo modo, il metodo si rivolge contro se stesso…E’ come se la scienza fosse inibita nell’immaginare l’uguaglianza dei sessi dal tipo di coscienza richiesto per il lavoro scientifico…”
Hillman, Op. cit. pag. 259.
Allora
“sebbene Dioniso sia una figura maschile e fallica, non c’è misoginia nella struttura di coscienza che egli incarna, giacché questa non è divisa dalla sua femminilità…Nel mutamento indicato da Dioniso il femminile non viene aggiunto al maschile o integrato da quest’ultimo; al contrario, l’immagine mostra una coscienza androgina, dove maschile e femminile sono uniti fin dall’inizio. La coniunctio non è un risultato, ma un dato.”
In altre parole, per curare la follia autodistruttiva planetaria da cui siamo presi, occorre incontrare e integrare proprio quello che definiamo pazzia, non relegarla nell’ombra del processo esistenziale “omologato”, di quel vivere tanto civile, democratico e sano, da comportare regolarmente ricorrenti bagni di sangue. Naturalmente occorre affrontare il terrore di “contagiarsi” con l’altro, con l’oscuro; solo allora, con i costi inevitabili, potrà farsi disponibile lo stile di coscienza necessario ai nostri tempi e bisogni. Non può essere un’operazione indolore, va fatta riconoscendo come gli antichi greci, la sostanziale identità di Dioniso ed Ade, la necessità di ricomprendere il mondo infero e la morte, nella visione illuminata della Vita. Ciò che ci rifiutiamo di vedere per timori e paure, torna presto ad aggredirci alle spalle, elevato a potenza…

“Ricorda che sempre vita e morte avrai sotto i tuoi occhi. Forse vorrai fuggire, ma non sarà concesso”.
Morihei Ueshiba.
La follia della guerra voluta dalla classe dirigente della nazione, indusse Morihei Ueshiba alla follia -dall’opposto e non correlato punto di vista- dell’abbandono dei ruoli privilegiati in quella società, del ritiro anonimo in campagna, della trasformazione dello scontro marziale in incontro con l’opposto, ovviamente senza poter negare tutto il rischio ed il pathos connessi. Ripristinando così l’unità del tutto, la non separatezza, dove il nemico va identificato e riconosciuto a partire dal dentro di noi: Agatsu Masakatsu, vera vittoria, vittoria su di sé, vittoria del Sé.
Nel momento del fulgore della massima, magica efficacia e significatività dell’Aikido, il Fondatore ci appare un vecchietto sdentato e sorridente, un saggio benevolo, accogliente come solo il femminile consapevole sa esserlo, dove i possenti muscoli pettorali invecchiando si sono trasformati in un seno cadente (V. Aikido Journal), avendo attinto un livello non più succubo della mera forza fisica, nella coscienza che il ruolo della creaturalità è vivere, non vincere: neanche sulla morte.
Lo statuto filosofico universale dell’Aikido.
E’ questa a mio modo di vedere e a sintesi finale del presente elaborato, la maniera che giustifica l’appellativo di benevolo, a colui che si pone come distruttore nella Trimurti induista: Shiva.
Col suo satchitananda (essereconsapevolezzabeatitudine, congiunti senza trattini, in una categoria olistica del pensiero e del linguaggio ancora in elaborazione…) carico di energia, nell’evoluzione degli stili di coscienza, si porge all’occhio umano più pregnante del lontano e meno paradossale Brahma, come il vero padre dell’ebbrezza dionisiaca del Vivere.
La Vita in atto proprio qui, proprio ora.