La triade della conoscenza: soggetto (ahantā o pramatṛ), azione (karman) o conoscenza certa (pramā) e oggetto (idantā o prameya).
L’atto di conoscere, come d’altro canto ogni azione che implica integrazione di un contenuto, si muove all’interno dei rigidi confini della triade: soggetto-azione-oggetto. Orbene non può esistere conoscenza nella realtà concreta senza un soggetto conoscente, senza un’azione relativa (leggere, mangiare, vedere, comprendere, etc) ad un oggetto fine dell’azione in essere. Da questa via tripartita non si può uscire nel mondo manifesto, mai ed in nessun ambito, tranne che in una branca del sapere umano: la mistica. La mistica ha leggi tutte sue e, sorprendentemente, pur fondandosi su di un postulato (ossia un assunto dato per vero ma non dimostrabile come tale) essa è affidabilissima.
Il postulato su cui fonda la mistica, sia che essa sia teistica, ovvero fondata sulla credenza di un Dio creatore, sia che essa sia non sostanziale, ovvero fondata su una realtà trascendente non racchiudibile nelle categorie di pensiero, sia che essa sia legata alla psicologia del profondo e quindi alla possibilità di conoscere la radice della mente inconscia, è che la triade possa essere trascesa.
Dalla triade della conoscenza al trascendente
Innanzitutto di per sé il trascendente non può essere mai ritenuto oggetto di conoscenza, in quanto per oggetto si intende sempre un qualcosa di racchiudibile nei confini o dei sensi o della ragione e quindi di quantificabile e circoscrivibile. In secondo luogo l’Io conoscente, nel momento in cui conosce, se mantiene i suoi paradigmi (confini della persona) fallisce l’atto di conoscere il trascendente, ciò che di per sé non ha confini. Per conoscere ciò che lo sovrasta l’Io deve essere dimentico di sé per poter Essere ciò che contempla. Solo la perdita del punto di vista (Io) concede il premio della conoscenza mistica. Ecco che della triade della conoscenza, deceduti i poli dialettici (soggetto ed oggetto) rimane solo il tendere, ossia l’azione, il contemplare, l’essere coscienti.
È possibile che rimanga solo la coscienza?
Ebbene sì! La testimonianza, intesa come un progressivo susseguirsi di istanti di presenza è proprio il fine della contemplazione. Ciò che emerge negli stadi di assorbimento interiore (samāveśa), essendo stata trascesa la roccaforte dell’Io ed il senso di separazione dell’oggetto, viene vissuto, in maniera impersonale, come un flusso di coscienza senza perimetri. Questa è la forza titanica della coscienza, ma c’è un ma enorme… Ogni volta che in contemplazione si perde lo stato del flusso e riemergono i meccanismi di difesa di soggetto ed oggetto, significa che la mente non è ancora pronta per l’unione e fa emergere dalle profondità contenuti di cui se ne teme ancora l’attuarsi. Solo la realizzazione della loro vacuità permette il ritorno alla presenza del flusso della coscienza.