Quando negli anni sessanta l’Oṁ si è abbondantemente diffuso in occidente, esso appariva ad americani ed europei come il simbolo di una cultura lontana, per alcuni aspetti esotica e al tempo stesso inspiegabilmente familiare, quella indiana. Lo si trovava nelle canzoni dei Beatles, aerografato sui pulmini degli Hippies; cantato, disegnato e sfoggiato come uno stendardo.
Se purtale era il suo utilizzo in occidente, tuttavia non si limitava (come poteva sembrare) a rappresentare un contesto sociale di appartenenza: l’Oṁ era piuttosto il simbolo di una direzione comune, un percorso verso un non-luogo universale e al tempo stesso intimamente interiore, che si fa strada nello spazio-tempo incantandone le spire con il suo cosmico, onnipervasivo, suono. Così come accadeva nei concerti degli anni sessanta e settanta, e come quotidianamente accade oggi nella chiusura corale e a mani giunte di una sessione di Haṭha Yoga. l’Oṁ veicola il contenuto essenziale del senso (il senso junghiano), la chiave della ricerca spirituale. Nel momento in cui ci si appresta a pronunciarne le lettere, l’attenzione lascia cadere per un momento gli abituali tranelli dualistici della mente e si volge con sacro rispetto ad intonarne la vibrazione.
“Chi sa intonare l’Oṁ, ha in mano le chiavi del cosmo”
si usa dire in ambito accademico musicale in India.
Saper intonare l’Oṁ
Qual è dunque il segreto della sacra sillaba indiana? Cosa significa “saper intonare l’Oṁ”? Proveremo a dare una risposta a questi quesiti chiave. Per cominciare bisogna indagare sulle lettere che compongono il segno grafico. Oṁ è in realtà l’abbreviazione di AUṀ, dove A, U e Ṁ costituiscono rispettivamente i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo o le tre divinità della trimūrti (Brahmā, Viṣṇu e Śiva). Graficamente sono rappresentati dalle tre linee curve che danno luogo ad una sorta di numero tre più la coda. Al di là dell’oscillazione tra questi stati, oltre il velo di māyā, il velo dell’illusione, si aprono il quarto ed il quinto stato, rappresentati dalla mezzaluna (ardha candra) e dal punto (bindu). Nel Māṇḍūkya Upaniṣad, dove troviamo descritti in dettaglio tali stati di coscienza, si fa menzione del quarto stato (turīya), come dello stato di Consapevolezza Assoluta. La realizzazione dell’Oṁ e la realizzazione spirituale dello yogin, e del quinto come dello stato di onniscienza (turīyathīta).
Analizzando la grafia dell’Oṁ, possiamo notare come i segni raffiguranti A, U e Ṁ nel loro espandersi con linee curve nello spazio, siano espressione di movimento e molteplicità, e di come la mezzaluna ed il punto esprimano tensione verso l’unità, verso la Matrice (le cinque funzioni di Śiva: pañca kṛtyā), nonché ferma presenza che però (ricordando la definizione di punto di Euclide) “non ha parti ed è privo di qualsiasi dimensione”. Sebbene molte Upaniṣad provengano da un tempo antecedente al nostro anno zero, quanto esposto in Māṇḍūkya Upaniṣad trova interessanti e lampanti analogie con le moderne “onde cerebrali”.
In collaborazione con il portale Matrica.
Ascolta il brano Rāga Sūrya Akhetaton di Ysmail ispirato dal libro Tantra di Luca Rudra Vincenzini