Il Frullamento dell’oceano di latte o anche chiamato Zangolatura dell’Oceano di Latte
(samudramanthāna o sāgaramanthāna o kṣīrasāgara), è uno dei miti più interessanti dell’induismo.
Gli dèi e gli asura, terribili demoni, sempre in lotta fra loro decisero per una volta di allearsi per frullare le infinite acque dell’oceano cosmico per far emergere l’Amrita, cioè il nettare dell’immortalità.
Il Frullamento dell’Oceano di Latte, che affronteremo in parallelo sia da un punto di vista psicologico che cosmogonico, fu spesso usato a livello alchemico per raffigurare la trasformazione delle tossine (āma) in nettare (soma o candra o rasa o amṛta), ma anche come parafrasi della creazione dell’universo. Le divinità (Deva), che rappresentano, in un’ottica psicanalitica, le funzioni nobili dell’inconscio, ed i demoni (Asura), che invece ne incarnano quelle nefaste, sorvolano l’oceano oscuro (salīla, lo spazio informe; mahāsāgara, il grande oceano; kurukṣetra, il campo delle possibilità; mahāśūnya, il grande vuoto), profondo ed ancora non manifesto, quindi imperscrutabile, avidi del fatto che, entrambi gli schieramenti, hanno bisogno del nettare per trarne nutrimento. L’oceano deve essere frullato per far sì che da esso, sostanza grezza e non commestibile, emerga la bianca amṛta (che nell’ottica alchemica rappresenta l’elisir di lunga vita ed in questa cosmogonica rappresenta la creazione dei mondi sensibili di cui entrambi si nutrono), ossia il nettare che nutre gli esseri sovrannaturali e che darà la vita ai vari mondi.
Come hanno ottenuto il frullamento dell’oceano di latte
Per operare il Frullamento dell’Oceano di Latte o zangolare l’oscuro mare (inconscio) e tirarne fuori la vita luminosa (inconscio superiore, il Sé), essi estirpano il gigantesco monte Mandara (l’Axis Mundi junghiano, in altre interpretazioni anche metafora della colonna vertebrale: madhya o merudaṇḍa) ed utilizzano per lo scopo l’enorme serpente a sette teste Vāsuki o Śeṣa o Ananta (espressione della forza vitale creatrice, in altre interpretazioni anche metafora della kuṇḍalinī). Poggiano il monte a testa in giù sulla tartaruga (kūrma) simbolo della longevità e della vita eterna.
La tartaruga nei trattati di Yoga fisico è sempre contrapposta alla lepre, quest’ultima vive a causa del suo respirare frenetico solo sette anni contro i cento del lento e meditativo rettile. Vāsuki viene attorcigliato intorno al monte ed i numi iniziano a frullare l’oceano: agli Dèi spetta la coda e ai demoni la testa. Sono tutti affamati perché nel periodo vedico sono entrambi mortali e necessitano dell’amṛta per sopravvivere. Mentre sono intenti a trasformare l’oscurità in luce, il serpente sputa del veleno (hālāhala o viṣa), simbolo anch’esso di una, grezza e caustica, manifestazione iniziale.
Śiva e la gola blu
All’inizio il veleno indebolisce gli Asura, ma prima che intacchi anche i Deva interviene l’onnipotente Śiva, in alcune versioni del mito aiutato dalla Devī (la Dea). L’unico che poté evitare che il veleno fosse dannoso fu lui, bevendolo divenne blu come il cielo e trasformò la nescienza in coscienza, eliminando gli scarti cosmici rese possibile e fruibile la vita biologica. Śiva diviene così Māyūreśvara, il signore dei pavoni, e la sua gola diviene blu (nīlakaṇṭha) a causa del veleno; in altri miti tale associazione con il pavone, soprattutto con le sue piume, ha a che fare con la creazione dell’universo in cui la coda rappresenta proprio la manifestazione (apertura della coda) ed il riassorbimento (chiusura della coda).
Questa bibizione permette agli esseri sovrannaturali di portare a termine la loro azione. Prima che il nettare sgorghi, dall’oceano escono però gioielli, fiori ed altri oggetti di valore a rappresentare i poteri sovrannaturali (siddhi) che si attivano prima dell’illuminazione, ma assieme ad essi escono anche gli istinti più bassi.
Simboli metafisici
Da un punto di vista metafisico l’inconscio (oceano) è dimora, infatti, sia per le virtù (amṛta) sia per i vizi (hālāhala). Prima dell’amṛta, allora, assieme agli altri ratna (gioielli), nei Purāṇa per alcune versioni del mito 9 e per altre 14, sino a 18 nel Rāmāyaṇa e nel Mahābharata, dall’acqua sgorgano:
- Lakṣmī (la dea dell’abbondanza),
- le Apsara (le mogli dei Gandharva),
- Varuṇī (la figlia di Varuṇa, la Dea che rappresenta lo stordimento del vino celeste),
- Kāmadhenu o Surabhī (la vacca sacra),
- Airāvāta (l’elefante di Indra),
- Uccaiḥśrava (il cavallo a stette teste del demone Bali),
- Kaustubha (il gioiello di Viṣṇu),
- Pārijāta (l’albero dell’Indraloka),
- Śaraṅga (l’arco di Visnu),
- Candra (la luna),
- Dhanvantari (il medico degli Déi poi ritenuto un’incarnazione di Viṣṇu),
- Hālāhala (il veleno cosmico),
- Śaṅkha (la conchiglia della creazione),
- Alakṣmī (la dea della sfortuna),
- gli orecchini di Aditī (la madre degli Dèi),
- l’ombrello di Varuṇa, Kalpavṛkṣa (l’albero dei desideri),
- Nidrā (il bradipo).
Alla fine di tale lunga sequenza, l’amṛta erutta rigogliosa come sinonimo della gioia della libertà illuminata (mokṣa), mentre, in un’ottica creativa, rappresenta l’eiaculazione del mondo che conosciamo con tutta la sequela dei piani sottili. L’attrito ed il lavoro degli opposti (dvandva), rappresentato da Deva ed Asura, porta dunque alla creazione caustica del complicato piano evolutivo di cui facciamo parte.